In occasione del nuovo anno e della nuova rubrica dedicata alle interviste (corri a scoprirla sul nuovo numero di gennaio), vi proponiamo alcune interviste tratti dai nostri archivi.
Giulio Ciotti e Michele Palloni, rispettivamente allenatore e preparatore fisico di Gianmarco Tamberi, ci hanno raccontato l’allenamento con il campione Olimpico e Mondiale di salto in alto.
Giulio Ciotti è stato un altista italiano, medaglia d’argento ai Giochi del Mediterraneo nel 2001. Ha fatto per 20 anni l’atleta delle Fiamme Azzurre, per poi, nel 2016, diventare allenatore e responsabile di settore proprio all’interno del Gruppo Sportivo della Polizia Penitenziaria. Nella stagione 2016-17 Stefano Baldini lo ha voluto nelle Nazionali giovanili per il salto in alto, prima a chiamata, poi con contratto per arrivare all’incarico attuale e divenire collaboratore per la squadra assoluta.
Come allenatore – ci ha confessato – si è ispirato alla tecnica dell’altista marchigiano e nel ruolo federale ha avuto modo di osservare da dietro le quinte Tamberi. Che lo ha scelto come allenatore nel momento in cui ha deciso di cambiare tecnico (Gimbo era seguito da suo padre, Marco, ex saltatore in alto anche lui). Scopriamo con Giulio il suo percorso da atleta, quanto lo sta aiutando nel ruolo di allenatore e come è stato pianificato il lavoro con un campionissimo come Tamberi.
Partiamo dal tuo percorso di formazione da altista…
«Ho incominciato con l’atletica presto, a 9 anni, anche se prima di fare le “cose seriamente” è passato un po’ di tempo. Infatti ho iniziato a gareggiare attorno ai 16. Poi ho fatto tutto il mio percorso di gare conquistando alcuni titoli italiani indoor e outdoor. Il fatto di aver calcato le stesse pedane di Gianmarco mi dà un vantaggio nel far passare certi messaggi, più pratici che tecnici a dire il vero. Insomma, con un linguaggio… da pedana!»
Cosa può trasferire un ex atleta a un atleta della stessa disciplina?
«L’esperienza in pedana è fondamentale per il mio modo di allenare e di vedere la specialità. Non è semplice capire solo dai libri o dal vissuto da tecnico sul “campo” certi meccanismi del salto in alto. La conoscenza, lo studio, ci mancherebbe sono molto importanti, ma ci sono delle sensazioni che solo chi le ha provate da dentro può avere. Delle percezioni interne, senza le quali ti manca qualcosa. È chiaro che queste non sono sufficienti per fare l’allenatore, occorre uno studio della biomeccanica, della tecnica, della parte fisica…»
Un aspetto particolare della disciplina, come tutte le altre dell’atletica, è quello di lavorare per un lungo periodo e poi giocarsi tutto nel giro di pochi istanti…
«Sì, è così. Si lavora 8 mesi per 2 mesi di attività, negli altri sport di solito è il contrario! E in questi mesi per il saltatore i momenti decisivi sono pochissimi, non può sbagliare. Per arrivare ai livelli di Gianmarco, poi, serve una tecnica eccelsa, di rincorsa, di stacco… bisogna andare sempre alla ricerca della “minuzia”, del particolare. Lavorando a lungo, per tanto tempo. Ripetendo e ripetendo. La rincorsa, ad esempio, deve essere quella, compiuta quasi a occhi chiusi, su un binario. Otto-dieci passi sempre uguali, in qualsiasi situazione, contro qualsiasi avversità. Spesso c’è vento, ma pochi lo rimarcano. Poi c’è la costruzione fisica, che deve supportare, anzi deve fondersi con la tecnica. Ora ci sono diversi strumenti che ti aiutano a monitorare la condizione dell’atleta, pensa ai test, c’è tanta più accuratezza, ai miei tempi dovevi fidarti solo delle sensazioni. Sensazioni che mi sono rimaste, che ora mi aiutano in certi frangenti.»
È cambiato altro da quanto saltavi?
«Il fatto che il programma deve restare un pezzo di carta e stop, una sorta di filo conduttore, progettato insieme all’atleta, sull’atleta, ma non è un dogma immodificabile. È una struttura su cui incastrare il quotidiano. Conta di più vedere, capire, sentire, ascoltare, confrontarsi con il saltatore, senza restare troppo rigidi o ancorati su quello che si è pianificato.»
Cambiamo discorso: non deve essere stato semplice subentrare all’allenatore precedente, in particolare perché questo ruolo era del papà di Gianmarco…
«Guarda, ti rispondo come ha fatto Gimbo in un’intervista: “Siamo partiti per un capitolo nuovo, noi saremo un’altra cosa”. Con il massimo rispetto per quello che è stato fatto prima. Noi siamo una squadra. Gianmarco ha voluto costruire una squadra che lavorasse per lui, su di lui. Un lavoro di staff. Lo conoscevo in maniera formale visto il mio ruolo in seno alla federazione, l’ho seguito nel periodo in cui voleva cambiare guida tecnica e poi abbiamo cominciato. Io, Gianmarco e Michele (Palloni, ndr) siamo diventati un trio, abbiamo voluto “fonderci”, vedere con gli stessi occhi… Questo è stato importante!»
Molto bella la frase “Vedere con gli stessi occhi”…
«Sì, e io ho dovuto allenare i miei, velocizzarli, per andare alla sua velocità. La sua rincorsa è una delle più rapide del mondo, dovevo prepararmi. Quando abbiamo incominciato insieme, mi ha dato un hard-disk con un terabyte di suoi salti, compresi quelli prima del suo infortunio. Ho passato ore e ore a studiarli, a imparare a conoscerlo. Li ho rivisti all’infinito. Siamo così andati alla ricerca del salto perfetto, del suo salto perfetto. Abbiamo fissato dei benchmark per trasformare quello che era l’ideale in qualcosa di tangibile.»
Un lavoro di match analysis…
«Molto minuzioso, impossibile ad esempio ai miei tempi. Lì mettevi l’asticella e andavi a saltare. Ora c’è una ricerca, uno studio preciso. L’altro aspetto importante è stato la necessità di avere un linguaggio comune, una lingua per confrontarci in maniera diretta e inequivocabile sui vari aspetti delle gestualità, rincorsa, stacco, volo… ai Mondiali siamo arrivati al massimo, al punto che con uno sguardo ci capivamo immediatamente.»
Prima di concludere, toglimi una curiosità: cosa passa nella testa di un altista tra un salto e l’altro…
«Tanto, ci si concentra per capire cosa è andato e cosa no. Si va alla ricerca del salto perfetto, di quel qualcosa che può fare la differenza. Dalle qualificazioni alla finale abbiamo cambiato modo di affrontare il salto, poi nell’ultimo atto ha commesso un errore a 2,25, la misura d’ingresso. Ma ero tranquillo, quelle altezze le affronta con una meccanica differente. Tra l’altro in riscaldamento aveva superato i 2,30 senza difficoltà. La verità sai qual è?»
Quale?
«Che nella finalissima era nel mood giusto. Nel mood del vincitore. E non ce n’era per nessuno. Prima mi hai chiesto delle sensazioni dell’altista… quando sei in pedana e inizi a guardare la gara degli altri, sei uno spettatore. Gimbo no, era il protagonista. Punto. Aveva una forza dentro incredibile, data anche dalla vittoria all’Olimpiade e da quanto vissuto.»
Michele Palloni è colui che si occupa della parte fisica nello staff di Tamberi. Ex atleta di diverse discipline – ha praticato pallavolo, pallacanestro… è stato nella Nazionale italiana di bob – di Falconara, conosce Gimbo fin da ragazzo; non c’è molta differenza di età tra loro. Laureato in scienze motorie, da sempre si occupa di allenamento fisico, in special modo di forza e pliometria. Ci spiega quindi come è impostato il lavoro “atletico” con il campionissimo di salto in alto.
Cominciamo toccando il tema del modello di prestazione del saltatore in alto: cosa puoi dirci in merito?
«Sebbene i metabolismi energetici utilizzati siano gli stessi per tutti i saltatori, non esiste un modello prestativo univoco. Cambia da saltatore a saltatore. Nel gergo comune, normalmente, vengono
distinti due tipologie, quelli di forza e quelli di velocità. In realtà il primo è un modo per identificare atleti dotati di un enorme potenza muscolare che non necessitano di accumulare eccessiva velocità durante la rincorsa e sfruttano principalmente la loro capacità di produrre forza esplosiva allo stacco; il secondo termine viene utilizzato per atleti che necessitano di avere molta velocità durante la rincorsa per ottenere il massimo rendimento dalle loro qualità reattivo-elastiche. Ovviamente non esiste solo bianco o nero, gli atleti che praticano salto in alto hanno bisogno di tutte queste qualità/capacità fisiche, però alcuni sono in grado di utilizzarne una più di un altra. Ad esempio, parlando di Gimbo, lui ha una stiffness, delle qualità elastiche, fuori dal comune. Insomma, ha bisogno di accumulare velocità arrivando allo stacco appunto velocissimo per fare il massimo. E noi dobbiamo tenere in considerazione queste peculiarità in sede di allenamento trovando il piano migliore per lavorare con lui.»
Un piano operativo meticoloso, preciso, immagino…
«Sì, certo, un programma costruito a tavolino che prende in esame i mezzi che è solito utilizzare, con le varie cadenze stagionali, che integra nuove soluzioni e la parte tecnica. Che però non può rimanere immutato. C’è un altro aspetto importante che abbiamo inserito nel lavoro con Gianmarco, quello dell’autoregolazione, che deve andare di pari passo con la programmazione. Sono binari paralleli ma interconnessi. Un piano operativo, per quanto mi riguarda, non può essere scolpito nella pietra e stop, non può rimanere immutabile. Deve avere come caratteristica anche la flessibilità, perché la situazione fisico-mentale dell’atleta cambia di giorno in giorno. Ci vogliono test oggettivi, quotidiani, per capire, ad esempio, quando è bene introdurre una seduta allenante piuttosto che una di recupero. Poi ci sono le sue sensazioni, che non vanno mai sottovalutate. Per questo ti dico che con Gianmarco e Giulio la sintonia è totale.»
Hai parlato di controllare la situazione di forma prima di ogni allenamento: come lo fate?
«Faccio un passo indietro prima di entrare nei dettagli della domanda. Provo a spiegare perché agiamo in tal modo. Comincio dalla sindrome generale di adattamento e dai relativi processi di supercompensazione. Semplificando il discorso, quando si sottopone un atleta a un carico allenante si crea una condizione di fatica; questa può perdurare per diversi giorni prima che la condizione neuromuscolare ritorni a un livello di omeostasi. Appena dopo questa fase c’è un lasso di tempo definito supercompensazione in cui il potenziale neuromuscolare dell’atleta si trova a un livello superiore rispetto alla baseline, secondo la letteratura intorno al 3%, e dove idealmente sarebbe opportuno introdurre un altro carico allenante. Al contrario, se si sbagliano le tempistiche più volte e si sottopone l’atleta a un presunto carico allenante quando si trova in una situazione di fatica, si rischia di incorrere in sovrallenamento e infortuni. Per questo motivo prima di ogni sessione utilizziamo dei test di readiness riconosciuti a livello scientifico. Sono prove di prontezza, neuromuscolari: proponiamo dei salti con contromovimento e dei drop jump. Il gold standard per comprendere lo stato dell’atleta sarebbe l’esame ematico che calcola il rapporto tra testosterone-cortisolo, ma è appunto invasivo oltre che costoso, quindi ci affidiamo a queste due soluzioni che hanno un importante indice di correlazione con “testosterone-cortisolo”.»
In che modo vi comportate dunque?
«Prima di ogni allenamento inseriamo il drop jump per monitorare l’indice di forza reattiva, l’RSI o Reactive Strength Index. Siccome il salto in alto è una disciplina traumatica, a volte preferiamo evitare problemi e proponiamo il CMJ, è meno “pericoloso”: non osserviamo solo l’altezza di salto, che può essere condizionata anche da vari fattori, ad esempio le capacità coordinative che consentono all’atleta di adottare strategie diverse per raggiungere misure simili, utilizziamo come metrica l’mRSI dato dal rapporto tra altezza di salto e il time to take off (quanto impiega il soggetto dall’inizio del caricamento allo stacco dei piedi da terra, ndr). Con questi dati capiamo quando somministrare uno stimolo, quando possono esserci adattamenti positivi oppure se è opportuna una sessione di recupero o di mantenimento.»
Quali sono gli obiettivi dell’allenamento di Tamberi?
«Insieme al miglioramento della parte tecnica, il nostro lavoro è indirizzato principalmente sullo sviluppo di capacità condizionali come forza e velocità abbinate a importanti lavori di pliometria. Lavoriamo per la forza a inizio preparazione dopo un periodo introduttivo, con mezzi e metodi di allenamento più tradizionali, mentre nel periodo agonistico/pre-agonistico tramite dei blocchi di durata variabile, con interventi di forza isometrici ad angoli sport specifici. La velocità è sviluppata anche in questo caso con mezzi classici, pensate a sprint sui 60 metri, 20 metri lanciati, lavori assistiti e resistiti. La pliometria viene sfruttata in forma intensiva per migliorare gli aspetti neuromuscolari ed estensiva per favorire processi di adattamento e rimodellamento a livello del complesso muscolo-tendineo, soprattutto per il tessuto connettivo, come forma di prevenzione, oltre che per migliorarne gli aspetti coordinativi. Lo scopo di tutto l’allenamento condizionale comunque è trasferire i miglioramenti al gesto tecnico del salto in alto. Oltre ad arrivare con un picco di forma importante alla competizione.»
Sollecitate anche gli aspetti aerobici?
«Non molto, o meglio solamente con un intervento di ripetute su lunga distanza a inizio stagione per preparare Gianmarco a tollerare carichi di lavoro più elevati. Talvolta utilizziamo la corsa, i classici 15 minuti in forma blanda, come defaticamento o seduta di scarico attivo.»
Per quanto riguarda la mobilità articolare?
«La curiamo con attenzione. Proponiamo a Gimbo un lavoro di mobilizzazione passiva guidata all’inizio di ogni allenamento, oltre a sedute di mobilità separate da quelle tecniche o prettamente fisiche. È determinante sia in ottica prestativa viste sue le caratteristiche fisiche sia preventiva.»
Parliamo di prevenzione degli infortuni allora…
«Guarda, secondo la letteratura la miglior forma di prevenzione è… l’allenamento della forza! Non solo quindi in ottica prestativa, questa capacità condizionale riveste un ruolo cruciale anche nella prevenzione degli infortuni; inseriamo anche diversi lavori complementari come forma di prevenzione a strutture che vengono enormemente sollecitate durante gli allenamenti tecnici e di velocità, come ad esempio gli hamstring per renderli più resilienti alle enormi tensioni a cui vengono sottoposti durante la parte di tecnica e velocità. Poi puntiamo sulla flessibilità, interessiamo con attenzione quelle catene muscolari che vengono meno stimolate, introduciamo con buona frequenza esercizi di propriocezione. Cerchiamo di non lasciare nulla al caso, ma la forza è per noi fondamentale.»
Chiudiamo con il riscaldamento pre-gara: in che modo è organizzato?
«È molto simile a quello sviluppato nel pre-allenamento: c’è una parte di mobilizzazione passiva, delle andature e alcuni allunghi. Poi si va in pista dove vengono effettuati delle rincorse e dei salti di riscaldamento. Se Gimbo entra in gara tardi, perché la misura scelta è più alta, per mantenersi “caldo” esegue delle rincorse nei tempi morti della gara.»
Autore: Luca Bignami.
Foto: Francesca Grana.
Scienza&Sport, numero 60, ottobre 2023.