Il nuoto nelle scoliosi. Miti e tabù da sfatare

Il nuoto nelle scoliosi. Miti e tabù da sfatare

In questo articolo Rodolfo Lisi parla della pratica del nuoto per pazienti affetti da patologie deformanti della colonna vertebrale. Quali sono i miti e i tabù da sfatare?

Abstract

In passato, un ragazzo scoliotico era tenuto a orientare la sua futura formazione fisico-motoria e sportiva soprattutto verso le discipline natatorie, alle quali venivano attribuite notevoli proprietà terapeutiche. L’evidenza scientifica non supporta l’assunto. Alcune ricerche (Geyer, 1986; Vercauteren, 1982) hanno infatti dimostrato l’infondatezza di tale convinzione. In sintesi, il nuoto esclude qualsiasi ricostruzione posturale per l’impossibilità di far leva su punti fissi statici e stabili di riferimento e, meccanicamente, non consente di controllare le torsioni del rachide, le inevitabili antiversioni del bacino e le altrettanto inevitabili forze vettoriali a trazione dei muscoli del dorso.


Occorre ricordare che il corpo umano è organizzato globalmente contro la forza di gravità e, dal suo “esordio”, è modellato in gioco con la gravità stessa, la quale risulta incorporata nell’organizzazione delle attività umane. Di qui, la gravità è la forza che permette le attività vitali alla cui azione ci sottraiamo, contrapponendo l’equilibrio fra i vari segmenti ossei, la coordinazione muscolare e l’attività percettiva. Quando si apre il discorso sulle patologie deformanti della colonna vertebrale, la gravità diviene l’accusata per eccellenza. Di conseguenza l’inesperto, pensando che il corpo umano fuori gravità migliori, studia gli sport che permettono la riduzione di questa forza.E nel nuoto si trova l’àncora di salvezza per sottrarre il corpo alla forza di gravità e indirizzare subito il fanciullo in piscina per i suoi problemi vertebrali. Tuttavia, chi possiede una chiara visione del problema e, oltre a essere un buon terapeuta, studia biomeccanica, cinesiologia, psicologia e neurofisiologia, diventando esperto della problematica eziologica delle deformità del rachide, si pone probabilmente alcuni di questi quesiti:

1. qual è la posizione del corpo in acqua nel momento statico di galleggiamento, nello sforzo di avanzare nell’ambiente liquido? Inoltre, stiamo parlando di un soggetto che sa nuotare sufficientemente bene?

2. quali sono i muscoli che lavorano elettivamente nell’esercizio dei vari stili?

3. quali sono i punti di appoggio sui quali il soggetto dovrebbe far perno per effettuare quelle auto-correzioni che permettono di lavorare con il rachide in asse o in posture correttive?

4. quale assistenza può avere lo scoliotico in acqua?

5. qual è l’eziologia della scoliosi?

6. quale insegnamento cinestesico viene ad acquisire lo scoliotico per poi applicarlo nella vita di relazione in posizione bipede e, quindi, in continua lotta contro la gravità che tende a riportarlo nella postura alterata?

A questi interrogativi diamo delle risposte seguendo un criterio logico basato:

1. sui princìpi fondamentali della meccanica del nuoto in vari stili;

2. sullo studio di sequenze filmate in piscina;

3. sulla bibliografia nazionale e internazionale;

4. sugli studi condotti dai ricercatori;

5. sull’eziologia della scoliosi;

6. sull’esperienza degli studiosi.

Nel nuoto, la propulsione determina l’avanzata, regolata dalla legge azionereazione (terza legge dinamica di Newton). In pratica, è identificabile con la resistenza sviluppata da mani e piedi che spingono indietro l’acqua. L’ideale sarebbe avanzare in linea retta, ma il galleggiamento, l’idrodinamica e le parti fuori dall’acqua non lo consentono (Magel & MCArdle, 1970 – figura 1).

Figura 1 Per avanzare occorre rompere la resistenza frontale (cioè, la resistenza del risucchio o vortice provocato dall’acqua che scivola dietro al corpo e si trascina molte molecole del liquido) e la resistenza di attrito causata da pelle, indumenti e capelli.

Senza entrare nel merito specialistico per delineare il moto, ci focalizziamo su alcuni punti:

1. trazione anteriore (generata dalle braccia) – può essere realizzata a gomito flesso, esteso, semiflesso. La superficie della mano impegnata è fondamentale;

2. trazione posteriore (sviluppata dalle gambe) – riveste importanza minore di quella anteriore a causa di problemi di “risucchio”;

3. il nuotatore è costretto a vincere la resistenza frontale, ma anche l’inerzia (Jensen & Bellow, 1976). Nella bracciata, il recupero del braccio “in fuori” determina una rotazione del tronco. La situazione in tono maggiore o minore si ripropone anche in altri stili natatori (Yeater et al, 1981; Svec, 1982).

È importante ricordare, inoltre, che – sebbene l’atleta possa muoversi in linea retta – i suoi movimenti tendenti a questo fine sono tutti circolari o variazioni degli stessi (figura 2).

Figura 2 Elettromiografia in acqua per determinare il lavoro dei muscoli.

Pertanto, sia per fattore meccanico sia quello per contrazione dei muscoli spinali, si avvicinano i punti d’inserzione e i muscoli si contraggono concentricamente; si genera quindi un’accentuazione della curva lombare (figura 3, parte A). Sul dorso, al fine di portare il torace a “pelo d’acqua” e per la trazione esercitata dallo psoas, avviene lo stesso meccanismo (figura 3, parte B).

Figura 3 Parte A: stile libero o crawl; parte B: dorso.

Per la terza legge di Newton, ogni movimento circolare del braccio o delle gambe, sia nella trazione sia nel recupero, tende a creare una reazione che sposta il corpo in direzione opposta, molto evidente in coloro che non possiedono una buona tecnica. Ancora: nella funzione respiratoria la testa –trovandosi fuori dall’acqua – causa un maggior affondamento del corpo sul piano frontale e sagittale. La colonna è soggetta a un bending (flessione) controproducente (figura 4). Vediamo perché. Un rachide scoliotico presenta alcune rigidità sui piani. Una scoliosi, con curva primaria toracica destra e compenso sinistro al bending, si comporta come segue: nel bending a sinistra si accentua la curva toracica con tendenza alla riduzione della curva lombare pur non essendo quest’ultima strutturata; nel bending a destra si accentua la curva lombare e si riduce di poco la curva toracica a causa della rigidità esistente sul lato concavo della curva (figura 5).

Figura 4 Un soggetto posto in acqua, nell’eseguire i famosi “movimenti correttivi” (nuotata prono o supino e overarm), non avendo i piedi al suolo, che teoricamente assorbono le reazioni del movimento, riacquista il suo equilibrio instabile perché si trova in un fluido che esalta al massimo il bending.
Figura 5 L’immagine di una colonna vertebrale affetta da scoliosi (piano sagittale e frontale).

Nel caso della curva descritta, la testa si troverà ruotata a destra nel naturale tentativo di respirare con la conseguenza di creare una curva di compenso cervicale sinistra e un lavoro non indifferente dello SCM, dei fasci superiori del trapezio e dei muscoli del cingolo scapolo-omerale di destra (figura 6). Il movimento a trazione del braccio sinistro, che dovrebbe sollecitare la riduzione della curva toracica, presenta un effetto collaterale dannosissimo nell’aumentare la curva lombare sia per l’azione del gran dorsale sia per la tendenza di quest’ultimo tratto a flettersi a sinistra. Se andiamo poi a considerare la muscolatura profonda, risulta facile intuire lo squilibrio che si crea in maniera superiore nei muscoli appunto profondi (figura 7).

Figura 6 I muscoli citati si contraggono per effettuare il recupero del braccio, facendo lavorare ulteriormente quelli di per sé già voluminosi e più forti dei controlaterali.
Figura 7 I movimenti dell’arto inferiore provocano sollecitazioni a torsione sulle vertebre scoliotiche, mentre lo psoas, motore dell’anca, si trova a lavorare in maniera simmetrica, consolidando la curva esistente.

Tali elementi negativi dovrebbero far desistere dall’uso del nuoto nelle problematiche della colonna poiché è noto come uno degli atteggiamenti peggiori del rachide sia l’accentuazione della curva lombare (Raimondi & Vincenzini, 2010). A tal proposito, nelle esercitazioni ginnastiche per iperlordosi e scoliosi si cerca sempre la retroversione per annullare la curva lombare e far apprendere la posizione retroversa, spesso sconosciuta. Non è tutto. Nell’ambito della rieducazione delle scoliosi, uno dei punti fondamentali della correzione risiede poi nell’eliminare le varianti, i compensi e, soprattutto, nel mantenere stabile la situazione correttiva. È conveniente segnalare che in acqua non sono possibili punti di appoggio e di riferimento, anche se, come disperatamente si fa, si aggiungono ciambelle galleggianti così da ridurre la lordosi o braccioli con l’intento di non fare affondare gli arti inferiori (Lisi & Giuffrida, 2019).

La cinesiterapia con l’esecuzione di esercitazioni impersonali da copiare, o peggio da interpretare, quando non è riprodotta su tableaux, si rileva inutile. L’assistenza si sintetizza nel controllo assiduo del più piccolo movimento per far eseguire azioni specifiche, localizzate. Non bisogna dimenticare che il corpo è sottoposto alla legge naturale di massimo rendimento e minimo sforzo. Se lo scoliotico non è controllato, impegnerà sempre il lato più forte a scapito del più debole e la sua colonna tenderà a flettersi sempre dal lato di maggiore flessibilità (cioè da quello concavo). In merito all’ultimo quesito, si ritiene ormai assodato come la scoliosi sia a eziologia sconosciuta e multifattoriale, dove prevalentemente si considerano i fattori neurologici, metabolici, biochimici, la cui espressione è la deformità.

Per questo è chiaro che lo scoliotico non può avere un corretto apprendimento cinestesico e motorio nell’esercizio del nuoto e non può nemmeno riportarlo nella normale vita di relazione. Il soggetto, per rieducarsi alla postura, si avvale delle sensazioni visive, di quelle acustiche, tattili, pressorie e del contatto con gli attrezzi, delle invarianti correttive, della costruzione dello studio motorio che dal facile giunge al complesso. Stimoli, questi, che nel nuoto sono limitatissimi essendo in rapporto a un ambiente instabile e con un liquido senza riferimenti fissi. La risposta che segue è tanto evidente che non può essere disconosciuta. La maggior parte degli studi motori che compone la seduta di cinesiterapia presenta lo scopo di educare il soggetto all’esatto rapporto delle varie parti del corpo, ad apprendere il riconoscimento delle diverse informazioni, a gestire il grado di contrazione dei muscoli, a dare un significato esatto alle sollecitazioni afferenti e a riproporre la correzione appresa nell’ambito relazionale. Tutto ciò porta a considerare come:

1. ogni equilibrio del corpo viene organizzato in rapporto alla gravità;

2. i piedi sono la porta d’ingresso di stimoli del senso gravitario;

3. l’educazione della postura necessita della sensibilizzazione cinestesica;

4. uno schema posturale si acquisisce con il miglioramento del proprio schema al fine di perfezionare e integrare automaticamente i gesti della vita di relazione.

Premesso questo, il nuotatore, data la qualità delle sollecitazioni (molto limitata o assente) chiaramente distinguibili in ricezione dagli occhi, dalle orecchie e dalla propriocettività podalica, deve riferirsi solo alle sensazioni di pressione ed equilibrio che ottiene dall’ambiente innaturale liquido. Il soggetto, essendo chiuso nell’ambiente in cui lavora senza potersi riferire a un appoggio fisso, non può avere un equilibrio stabile e il rachide scoliotico cederà sempre verso il lato di maggiore flessibilità. Essendo pertanto le percezioni in acqua completamente diverse da quelle che informano il nostro rapporto con la gravità terrestre, grazie alla quale sistematicamente ci muoviamo e viviamo, si può concludere che per l’uomo – ai fini riabilitativi – il nuoto provoca solo sollecitazioni negative (Geyer, 1986).

È da oltre trent’anni, inoltre, che si è assodata la controindicazione del nuoto riabilitativo nelle scoliosi (ma anche per altre problematiche del rachide). Se ancora oggi alcuni lo consigliano, peggioreranno le deformità a tutto vantaggio della chirurgia. In conclusione, da quanto spiegato, scaturisce assiomatico l’inutilità di una qualsivoglia disciplina natatoria nel prevenire, rallentare, correggere una scoliosi, specialmente idiopatica (Becker, 1986).

L’uomo, che ha raggiunto la sua verticalità, necessita di rieducare solo la sua motricità, le sue capacità motorie nel suo ambiente e non nell’acqua. Il nuoto, considerate le sue caratteristiche e il luogo dove si svolge, non riuscirà mai a creare e ad affiancare le reazioni di equilibrio, a consolidare le reazioni stato-cinetiche, a distinguere le varie informazioni che possono svilupparsi solo in presenza di carico, a controllare pedissequamente l’azione di una forza muscolare “correttiva” (Allegretta, 1969; Di Natale, 1978; Fava, 1996; Ulivi & Pivetta, 1973).

Con il nuoto dunque si esclude qualsiasi ricostruzione posturale per l’impossibilità di far leva su punti statici e stabili di riferimento, ove svolgere attività di “costruzione” e “strutturazione” corporea. Nemmeno se venisse chiamato “nuoto psicomotorio” come la moda impone, che (sia detto tra parentesi), non esiste.

I pregi del nuoto e dell’idrokinesiterapia

Come qualsiasi altro sport, anche quelli acquatici e natatori (di qualsiasi genere o tecnica) non sono “terapia” utilizzabile per “curare” la scoliosi o qualsiasi altro paramorfismo della colonna vertebrale (Blount & Moe, 1978; Adams et al., 1982; Kuprian, 1982; Tachdjian, 1972): sono, però, un valido supporto poiché offrono esercizi di grande variabilità e dinamicità che aiutano gli schemi motori e corporei a compiere azioni compensative. Servono altresì da ausilio e da rinforzo alle proposte pratiche che devono essere somministrate in ambiente altamente specializzato nella ginnastica correttiva e compensativa (Lisi & Giuffrida, 2019 – tabella A).

Tabella A Il nuoto: pregi e difetti.

Le tecniche di espletamento dell’esercizio fisico clinico in acqua sono fortemente connesse alle conoscenze delle proprietà fisiche del mezzo (acqua) e del corpo immerso in questo fluido, indipendentemente dalle sue proprietà organolettiche e, in particolare, in relazione al concetto di materia. L’acqua, o meglio il mezzo acquatico, non deve essere inteso come uno strumento terapeutico o un metodo di trattamento rieducativo; più semplicemente, va considerato come un mezzo dotato di specifiche caratteristiche, all’interno del quale possono essere allestite metodiche allenanti, e come un “attrezzo” per la somministrazione di esercizi rieducativi (Barczyk et al., 2009).

Quello che conta è la tipologia di esercizio e non le conoscenze dell’idrologia, che non possono produrre un “metodo acquatico” contenente obiettivi e strategie rieducative e funzionali. In caso di soggetto scoliotico con corsetto, se l’ortesi viene indossata e mantenuta durante l’attività pratica in acqua (pallanuoto, immersioni subacquee, acquagym), si eviteranno le tecniche lesive e lo si indirizzerà verso lo studio della manualità tecnica, evitando azioni lesive e prediligendo l’adattamento di quelle di più facile esecuzione: ciò non comporta grandi difficoltà motorie e consentirà l’inclusione soggettiva. Gli sport di contatto fisico, come la pallanuoto, consentono di potenziare e tenere attivi costantemente i muscoli che circondano la colonna vertebrale in postura corretta secondo i nuovi schemi corporei acquisiti, mantenendo l’equilibrio e la stabilità vertebrale raggiunta. Inoltre, queste discipline, se ben condotte e praticate, conferiscono un forte affiancamento ai punti essenziali del protocollo dettato dalla ginnastica correttiva e compensativa.

Si assiste a:

1. arresto o potenziale riduzione delle curve scoliotiche durante l’età evolutiva;

2. localizzazione degli esercizi per ottenere una precisa derotazione vertebrale (difficilissimo in vasca);

3. miglioramento della capacità respiratoria e della ventilazione polmonare (Pasek et al., 2009);

4. incremento dell’espansione toracica e del controllo dell’assetto posturale;

5. neutralizzazione delle manifestazioni algiche della colonna vertebrale;

6. incremento della capacità di autonomo intervento da parte del soggetto al controllo della scoliosi.

I soggetti devono concentrare la loro attenzione mentale e fisica lavorando sull’interiorizzazione del ripristino della simmetria spinale; ogni esercizio è mirato a conseguire l’ottimale controllo e la consapevolezza posturale da tenere durante le attività quotidiane utilizzando movimenti compensativi attivi nelle tre dimensioni dello spazio. Le attività in acqua come quelle citate in precedenza vengono effettuate sempre con entusiasmo dal praticante.

In vasca, difatti, è possibile:

1. mantenere una buona integrazione dello “schema corporeo”, intervenendo positivamente anche su distretti gravati da un notevole deficit di reclutamento muscolare;

2. allestire esercizi nei quali l’equilibrio sia mantenuto principalmente con il contributo degli arti superiori o del capo, facilmente attivabili nel contesto della cosiddetta motilità involontaria. Contestualmente, è possibile usare i piedi e gli arti inferiori a scopo esplorativo nell’ambito della cosiddetta motilità volontaria;

3. evidenziare e correggere disturbi della postura grazie al feedback posturale caratteristico dell’acqua, che evidenzia e penalizza le asimmetrie di forma in misura maggiore rispetto alla terraferma;

4. agire sulle contratture muscolari e sulle loro conseguenze posturali, sfruttando la “necessità” del rilassamento miofasciale selettivo (raggiungimento e mantenimento di alcune posture);

5. ideare una strategia cognitiva per ottenere il rilassamento e la contrazione muscolare selettiva;

6. allestire esercizi di mismatch percettivo per integrare e ristrutturare l’organizzazione spaziotemporale, sia con la modulazione dell’input propriocettivo sia con un adattamento alle particolari condizioni acquatiche del cosiddetto task-oriented approach;

7. è particolarmente facile allestire esercizi “globali” ma non generici dal punto di vista motorio e percettivo (un allungamento assiale associato a un compito di controllo posturale).

La virtuale riduzione dell’effetto della gravità fa decrescere il ricorso spontaneo alla co-contrazione e/o allo sfruttamento del fine-corsa articolare a favore del controllo della postura; inoltre, mantiene l’attivazione delle risorse muscolari selettivamente disponibili, anche quando il reclutamento di miofibrille è scarso o scarsissimo. L’approccio alle attività acquatiche deve essere progressivo e adeguato alle singole e individuali risposte. A cominciare dalla valutazione della semplice vista dell’acqua; poi è essenziale annotare la reazione al contatto del corpo con questa (distinguendo ulteriormente anche la localizzazione e relativa specificità del contatto stesso, come nel caso del viso che stimola reazioni legate ai riflessi oro-faringei inerenti la respirazione).

L’ambiente motorio acquatico è complesso, in quanto poco conosciuto e instabile, ma, nello stesso momento, la condizione di microgravità consente stimolazioni sensoriali molto fini e una ricca opportunità per allenare abilità motorie impossibili sulla terraferma (Iwanowski, 1997). Con l’ingresso in acqua si concretizza la possibilità di compiere un’attività pari ai costosissimi test aerodinamici (in questo caso idrodinamici): parliamo di un ambiente, quindi, altamente propriocettivo a facile disposizione, sebbene sia contestualmente necessario utilizzare questo mezzo con estrema sapienza e altrettanta cautela. Essendo certo che l’elaborazione dei dati viene stimolata in modo massivo nei contatti con l’acqua, capire bene quanto difficile risulti eseguire il compito richiesto, in relazione alle diverse abilità individuali, può determinare l’efficacia e la proprietà dell’utilizzo delle attività acquatiche a scopo pedagogico e terapeutico. La corrente (flusso idrodinamico) è un parametro generalmente sottovalutato che aggrava le difficoltà, agendo come un forte vento: le scie acquadinamiche. Ne deriva che la proposta di attività in presenza di flussi turbolenti (generati dall’attività in gruppo, ad esempio, o da risacche di onde marine) vada riservata esclusivamente a scopi atletici e sportivi. Un approccio progressivo con l’idrokinesiterapia fisioterapica può gestire ognuna di queste variabili e configurare protocolli terapeutici adeguati al singolo caso (Lisi & Giuffrida, 2019).

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